La più antica trasmissione del sapere. Che presuppone un corpo, una voce narrante, un orecchio attento. Cioè una qualità del racconto e una qualità dell’ascolto, intesa anche quest’ultima come vera e propria competenza. L’occidente che ha sempre sottostimato le culture di trasmissione orale dovrebbe interrogarsi sulla qualità dell’ascolto, qui troppo spesso orientato esclusivamente a quello della nostra stessa voce. Viene in mente l’antico racconto zen dei due amici, l’uno molto bravo a suonare l’arpa e l’altro molto bravo ad ascoltare. Quando il primo suonava o cantava di una montagna o di un ruscello, il secondo diceva: «Vedo la montagna come se l’avessimo davanti. Odo l’acqua che scorre!». Quello che ascoltava si ammalò e morì. Il primo amico tagliò le corde della sua arpa e non suonò mai più.
La radio, di cui si celebrava ieri la giornata mondiale, insegna questo dimenticato talento indispensabile, l’arte dell’ascolto. Una voce entra nelle case, dice, evoca, accompagna. Un privilegio da trattare con cura, se si è una di quelle voci. La mia gira per radio dal 2000. Specchio spietato del qui e ora, può essere roca, inopportuna, secca, raffreddata, tremante, saputella, rotta, nasale, empatica. Da Atlantis, programma Radio2 nel quale avevi tre minuti per un microracconto folgorante, non smisi più. Radio 3 con la prima “Siamo tutti brasiliani”, Wikiradio col Presidente Lula, poi Pina Bausch, Levi Strauss, Jorge Amado e tanti altri, “Passioni” con “A memoria d’uomo”, “Volti e voci della Calabria greca”, il samba, la Sila; “Le Signore di Bahia” e “Nativos” per “Vite che non sono la tua”, fonosfera della Festa della Bruna di Matera per “Tre soldi” eccetera. Si sente dire che la radio sparirà: si sta televisionizzando, diventa immagine. Che si lasci il primato all’ascolto, alla voce che dice chi siamo, una donna al microfono sola nella notte, oppure in viaggio a raccogliere altre voci lontane, come quella piena di mistero africano, scaturita dalla bocca lignea del sacro Gueledé.