«Una donna senza uomo è è come un naso senza officina un capitombolo senza la mitria un dizionario senza benzina un parafulmine senza la cipria…». Disattende le aspettative la canzone scritta da Meri Lao per il film La città delle donne di Fellini. Una donna senza uomo non è la solita vicenda cantata della femmina affranta dall’assenza del maschio, ma piuttosto un beffardo nonsense di sapore dadaista, che forse prese spunto dallo slogan anonimo apparso su un muro dell’Università del Wisconsin nel 1969: A woman needs a man like a fish needs a bicycle. Un sincopato tango congo, che coniuga ironicamente il tono appassionato e drammatico della musica, l’enfasi del canto, al gioco spiazzante delle parole, nel quale Meri Lao, nata a Milano il 26 febbraio del 1928, esplicita le sue origini culturali coltivate tra Argentina e Uruguay, che fecero del tango uno dei suoi vasti e fecondi territori di caccia.
«In Italia c’è Meri Lao -scriveva Astor Piazzolla nel 1978- che conosce la materia come molti di noi neppure se lo sognano, per giunta con la competenza della pianista classica». E’ stata una donna polifonica, come recita la motivazione del Premio Tenco che ricevette nel 2001: «Musicista, musicologa, scrittrice, ricercatrice, (..) da vera Sirena, ha attirato il pubblico nei segreti della grande canzone latinoamericana, diventandone studiosa tra i massimi al mondo». Ma anche sperimentatrice eccentrica, concertista, donna di teatro, insegnante per vocazione, pioniera della musica di protesta, studiosa di Sirene, autrice di 35 libri, femminista. Fu in una delle fucine del femminismo romano che, nel 1980, dopo aver letto una sua intervista su canto e sesso, la scovò Federico Fellini. Meri aveva appena pubblicato Donna canzonata, ristampato Musica Strega e, mentre insegnava al Liceo Sperimentale, gestiva un laboratorio di vocalità e gestualità. Un tuffo, quello del regista nella sala underground popolata di femmine, che certamente influenzò l’ideazione de La città delle donne. Al centro del gruppo, imponente in calzamaglia nera, Meri Lao officiava il suo rito come maestra di yoga e canto, mentre ogni donna con una calzamaglia di colore diverso, aveva, come nella poesia Vocali di Rimbaud, una vocale a disposizione, da modulare insieme al suo movimento a colori. «Meri Lao è una sacerdotessa» sentenziò Fellini e la volle nel film con tutto il suo seguito a ingrossare le fila dell’orda femminista all’inseguimento del malinconico Mastroianni. Nel libro Fellini, Sonia Schoonejans la ricorda così: «In un angolino discreto del set una bella donna, alta, luminosa e piena di dignità osserva in silenzio Fellini. È Meri Lao, che oggi è in scena con il suo gruppo di ricerca Musica strega».
Qui un frame del film per risentire la canzone
Lei e Federico divennero amici. Lui la interrogava sulla musica, su simboli e miti femminili, le chiedeva di interpretare i suoi sogni notturni e le faceva domande “da Sirena” tipo: Come riesci a suonare? Come fai a fare l’amore con quella coda? Devo avere paura di te oppure no? Per questo il suo primo libro sulle Sirene, Meri Lao lo dedicò a Federico «mostro che mostra e mostrifica, Sirena egli stesso».
Per La città delle donne, fu una specie di consulente femminista, scrisse testi e poesie. «Questo ‘regno’- dichiarò- è uno spazio dell’immaginazione nel quale il protagonista s’invischia e dove donne incomprensibili appaiono come creature mutevoli, ieratiche o grottesche, che attraggono o ripugnano. Ci sono i vortici, le sabbie mobili, il caos, il silenzio, ma è come se, nonostante tutto, queste nuove Arianne dessero all’autore un metodo per percorrere il labirinto e per scoprire una profonda verità».
La loro canzone è Una donna senza uomo, un canto liberatorio, celebrato a braccia alzate da tutta l’assemblea. Una canzone d’avanguardia che meritava vita propria, ma restò invece imbrigliata nella colonna sonora del film, senza che a Meri venisse riconosciuto neppure il diritto d’autore. Lei la propose ad alcune celebri interpreti non abbastanza anticonformiste e spiritose per accettare di cantarla, così la cantò magnificamente da sé, accompagnandosi al pianoforte nel suo disco I miei tanghi. E’ una canzone che oggi invitiamo a riportare in vita, inno gioioso per nuove generazioni di donne consapevoli e indipendenti, contente di sé con o senza uomo, motivo che vorremmo sventolasse nelle piazze, vademecum per studentesse che all’uscita da scuola rispondono con lo sberleffo e la creatività a modelli femminili offensivi e inaccettabili.
Come fece Meri Lao, alla quale i genitori anarchici volevano dare il nome di Giustizia e Libertà, poi mutato in America, parola che allora rappresentava gli stessi ideali: la terra promessa che avrebbero raggiunto da lì a poco con la bambina in braccio. Che davvero, a parte il figlio Curzio, non volle altri uomini troppo vicini a sé, godendosi la sua indipendenza “come un purosangue senza cravatta” e che prima della sua morte, avvenuta il 29 agosto del 2017, ha visto radunarsi attorno al suo letto centinaia di amici, ex allievi e tangueiros arrivati da ogni dove per ringraziarla e salutarla. E che si chiamava Meri, diminutivo di America: una promessa di libertà, mantenuta.
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