Transumanze

Transumanze

Verso le cinque e mezza arrivavo all’ovile. Un lungo periodo nella Calabria greca mi disintossicava dalle pene d’amore, mi allontanava da nuovi assetti difficili da immaginare, le figlie partivano per altri lidi, Roma mi era straniera. Le capre! La miglior terapia: caproterapia. Ci arrivavo attraversando la fiumara del Tuccio in quel di Bagaladi, Aspromonte jonico, qualche volta tiradomi su i pantaloni e affondando i piedi nell’acqua fredda a cercare pietre lisce. Paesaggio bianco e azzurro, spigoloso e fluido, lunare, sonoro, un luogo immaginato della geografia interiore. Il pastore Mimmo Nucera, abile accordatore di campani, arrivava verso le nove, per la mungitura e la ricotta da mangiare sul pane. Io volevo stare un po’ sola con loro. L’unica capra che mi era familiare fino ad allora, era quella de “La casa di Hilde”: quando cantavo la canzone di De Gregori alla chitarra, immaginavo quella capretta incontrata oltre il confine dove non ci sono “fiori diversi”, quella che si lasciava cattuare: “Era curiosa di noi..”. A tu per tu, da sola con loro, non c’ero mai stata. Mi accovacciavo per guardarle negli occhi, per farmi guardare. E che occhi! Da vicino vedevo le loro pupille, quei rettangolini orizzontali su fondo ambra. Studiai in seguito che gli consentono di aprire il campo visivo fino a 330 gradi, contro le ben più ristrette vedute dell’occhio umano che può spaziare appena fino a 185. Davvero di ampie vedute! Anche per questo, trovano equilibri impossibili sul filo spinato, o in cima ai rami, e sulla verticale di pietra del monte stanno appese come quadri alla parete. Il loro talento principale è lo spirito di adattamento alle più avverse condizioni, ai terreni più aspri, capaci come sono di trasformare anche la sterpaglia più arida, la corteccia più secca, il muschio più indurito, in un bel secchio di latte. Proprio questa loro capacità alchemica, ha permesso, fin dai tempi più remoti, di sopravvivere in tali accidentati frangenti, anche all’uomo che se ne facesse pastore.

La capra è vita. Non per caso fu una capra, Amaltea, a nutrire Zeus neonato, in fuga dal padre Crono: il dio, grato per l’adozione, creò da uno dei suoi corni la cornucopia dell’abbondanza e infine se la portò in cielo, eternandola nella costellazione del Capricorno. Mi guardano tutte e 150, le ammiro. Con il loro occhio clinico avranno capito subito che non ero pastora, che il mio non era un corpo rampante, abituato all’ascesa, che non somigliavo a “qualche dio greco, pellegrino e invernale”, come diceva Alvaro di chi da sempre accompagna le capre, che non dominavo i precipizi e le rupi come i pastori, che con questi spazi siderali stringono un misterioso sodalizio. Nonostante ciò, ogni mattina mi si facevano intorno, con la loro curiosità empatica, per ricordarmi il mistero gioso di una comunicazione extra-umana, e per consolarmi anche con un sorriso, da tutto il resto.

Testo e foto Copyright Patrizia Giancotti

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