Jorge Amado e la luna piena

Jorge Amado e la luna piena

Il 10 agosto del 1912, luna piena nel segno del leone, nasceva Jorge Amado. Anche quando divenne il più tradotto romanziere del Brasile, il suo numero telefonico era sull’elenco. Se lo componevi negli anni ottanta rispondeva lui. E magari ti invitava anche a casa. A me è successo, quando ero solo una ragazza che leggeva i suoi libri. Jorge Amado abitava a Salvador da Bahia in Rua Alagoinhas 33. La casa comprata nel 1961 con i soldi della Metro Goldwin Meyer per i diritti del romanzo “Gabriela cravo e canela” era semplice e bella, galleggiava nel verde, piena di opere d’ arte e di poesia. Sul campanello due cuori azzurri con su scritto Zélia e Jorge. Suonai, e si presentarono le solite domande che mi facevano tremare le gambe: perché mai avrei dovuto disturbare questo scrittore di fama mondiale? Perché mi ostinavo a saltare come un’incosciente al di là dello steccato di una esistenza tranquilla? Forse non avevano sentito e potevo squagliarmela? Ma la porta si aprì: <<Bem-vinda minha filha!>> Sulla soglia con una gran camiciona fiorata Jorge Amado spalancava le braccia. Meraviglia d’uomo! Sembrava aspettasse il mio arrivo come Mago Merlino quello di Semola, in una casa che era il prolungamento dei suoi romanzi. Incline all’incanto per le umane avventure, “filho” di Oxosse il cacciatore, spirito delle foreste, Jorge Amado lanciava il suo sguardo-freccia da sotto la criniera bianca e con quello intuiva cose insospettabili: la nuova rotta che avrebbe preso la mia vita, ad esempio, dopo l’incontro con quella città misteriosa, dove poi restai per dieci anni. Mi vide inconsapevole all’incrocio e fece di tutto per mettermi sulla strada che mi avrebbe portato al prezioso forziere dell’eredità africana, alle conchiglie divinatorie, alle sacerdotesse del candomblé, agli argomenti dei mie studi futuri, a quella che sarebbe diventata la mia ricerca di antropologia visiva. Certi pomeriggi passava a prendermi con il suo autista per il Grand Tour di umanità baiana, tra pescatori, Mães de santo, venditori ambulanti, cuoche, mercati e grandi artisti. Con un gran bel bottino tornavamo a casa, una casa viva, che respirava e risuonava di cicale. Zélia ci aspettava all’ombra dell’albero di mango con il gelato di maracujà. Companheira di mille avventure, discendeva dalla gloriosa stirpe veneta degli emigranti anarchici e cattolici e passò una vita dando la mano a Jorge. Tuffavamo i cucchiaini in quel refrigerio profumato e il sapore intenso si mescolava alla voce di quell’uomo adorabile: <<Oggi un pescatore mi ha regalato una squama d’argento raccolta dalla scia della sirena Yemanjà>>, oppure:<<Non c’è dubbio: gli africani hanno salvato il Brasile dalla tristezza del fado.>> E in quella casa, dove tutto sembrava possibile, che vide una bambina abusata come Teresa Batista sgozzare il suo aguzzino, una donna innamorata come Dona Flor fare l’amore con il marito morto, Santa Barbara in persona scappare dal suo tabernacolo, Sartre e Neruda discutere di divinità e di oracoli, fu decifrata la ricetta più efficace per sconfiggere il più abbietto dei preconcetti: << Siamo nel laboratorio del futuro del mondo e qui lo abbiamo sperimentato. Esiste solo un modo per abbattere il razzismo: mischiarsi!>>

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