Avevo un padre Xavante. Cominciò a dipingermi di urucum per prepararmi al matrimonio. Io pensavo di fotografarlo, il matrimonio, invece la sposa ero io. Avevamo viaggiato quattro giorni per raggiungere il villaggio Rawotsétédsépa, in Mato Grosso, io e Udo Gümpel, il ragazzo tedesco che sarebbe diventato padre delle mie due figlie. Rendevamo la visita al cachique, il capo tribù Benjamin Wapariá Xavante che aveva abitato un periodo nella nostra casa di Frascati. Era come ci si immagina un capo indiano: maestoso, imperturbabile, come il Grande Capo del ‘Nido del cuculo’. Non era mai uscito dal Brasile prima di allora, non aveva mai visto una città, una metropolitana, un cinema, un bancomat, un computer, un autobus, un supermercato. Alla fine del convegno sui popoli della foresta dove lo incontrai a Milano, dove lo traducevo dal portoghese, dichiarò platealmente alla stampa che prima di tornare in Brasile sarebbe rimasto a casa mia per un periodo. E così fu. La mattina si dipingeva il viso e il corpo di rosso urucum guardandosi allo specchio del bagno, portava conficcati nei lobi i sacri bastoncini wamari, che, all’uso Xavante, amplificherebbero la percezione, veicolando sogni premonitori, dormiva nella amaca e ogni mattina intonava il canto che Dio gli aveva sussurrato all’orecchio in sogno. Registrare le sue riflessioni sul nostro modo di vivere è stato illuminante. Mesi dopo, dopo quattro giorni di viaggio, portavo i braccialetti di fibra, mi tuffavo con in bambini al fiume, mangiavo mandioca, mi inebriavo dei colori del tramonto, mi s-vestivo da sposa Xavante e quando il sole spariva in uno sventolio del cielo, danzavo insieme a loro attorno al fuoco. Vivevo con un popolo che oggi, come i circa 400 gruppi di nativi brasiliani, è nel mirino delle politiche scellerate dell’attuale governo, più propriamente nel mirino dei suoi fucili, bersaglio di attacchi criminali, di omicidi, incendi, distruzioni, vittima dell’ignoranza rapace al potere, dell’imbarazzante presidente eletto, che sostiene apertamente assassini, taglialegna, cercatori d’oro, inquinatori, portatori di coronavirus, e che sta compiendo la promessa elettorale di cancellare questi popoli originari dai territori in cui sono insediati da millenni. Il crimine contro l’umanità che si sta consumando in questi giorni in Brasile lascia senza fiato. Gli appelli internazionali, le firme, le indignazioni non arrivano a destinazione. Viene in mente Carlo Zaquini, strenuo difensore degli Yanomami, che a quello stesso convegno di tanti anni fa, dal fondo della sua sofferenza di testimone oculare di un genocidio, dichiarò che, in quei primi suoi contatti, quando dormiva ai bordi dei villaggi per farsi avvicinare dai nativi, invece di portare in regalo una pentola o piccoli utensili, avrebbe fatto meglio ad insegnare agli Yanomami l’uso delle armi, a fornirli di un arsenale bellico per difendersi. Amara considerazione. Quando nell’alba fresca del Mato Grosso, lasciammo il villaggio di Benjamin Waparià, tutte le 250 persone che avevamo conosciuto in quei mesi si misero in fila con gli occhi lucidi per sfiorarci la mano, “non dimenticateci” fu la loro raccomandazione, e, loro sì, ci regalarono archi e frecce per ogni evenienza.
Frecce
