Trentasei colpi per trenta rullini.

Trentasei colpi per trenta rullini.

Una macchina da ricaricare al volo con piacere tattile, camminando, correndo, inseguendo l’evento, quel volto, la luce giusta. Guai a non fare i conti, si restava senza colpi, sconfitti dalla bellezza dell’immagine persa per sempre, irripetibile che, invece che sulla gelatina della pellicola, rimaneva impressa nella mente del fotografo: album delle foto mancate.

Il risultato? Solo alla fine del lavoro, a volte dopo un mese di viaggio, col dubbio atroce di un guasto all’esposimetro. Il numero finito degli scatti a disposizione (dove si andava, foreste, deserti, città tropicali, non si trovavano da comprare rullini professionali), l’incertezza del risultato, dava importanza e sacralità ad ogni singolo scatto, ci voleva maestria, sensibilità, coraggio.

Così era il lavoro del fotoreporter negli anni ‘80 e ‘90. Un po’ esploratrice, un po’ rabdomante, ti spingeva nei luoghi più remoti, pericolosi e impervi a cercare verità e bellezza. La mission consisteva nel catturare in breve tempo l’ineffabile spirito dei luoghi, per poi portarselo a casa e raccontarlo efficacemente. In quegli anni avventurosi lavorai costantemente per una ventina di riviste, dai settimanali femminili ai mensili di viaggio, dal periodico geografico-antropologico al bimestrale monografico, compreso l’incarico nel quale mi distinsi come “inviata di Snoopy in Patagonia”. Partivo sempre sola e quando il tempo concessomi dalle redazioni cominciò a starmi stretto, tagliai anche quell’ultima gomena per navigare libera. La storia da raccontare divenne la mia ricerca di antropologia visiva e il viaggio la vita

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