La notte che Paolo Conte svanì nella nebbia

La notte che Paolo Conte svanì nella nebbia

Lavoravo per una rivista di fotografia dal nome altisonante: “Infinito”. Il caporedattore torinese mi invitava a intervistare e fotografare personaggi della cultura sull’arte della fotografia, per una rubrica dal titolo “Io e l’immagine”. Che occasione! L’amato Paolo Conte, il cantautore / sceneggiatore dei più folgoranti paesaggi emotivi, l’orchestratore di irresistibili suggestioni evocative, verdi milonghe, fiumi pieni di neve, che ci avrebbero accompagnato per sempre, era in concerto al parco delle Pellerina. Mi presento sotto il palco e incrocio un uomo bello e gentile, Renzo Fantini, il suo storico manager, ma non lo sapevo. Lo convinco che è una cosa seria e lui convince Paolo Conte dicendogli “vieni a vedere che bella faccia”.  Viene a vedere col suo sorriso sornione, l’avvocato! Dopo il concerto si va noi tre a cena insieme in un ristorante dietro Via Roma, come se fosse normale. E via a tuffarsi in un verde spettacolo in corsa da inseguire, flusso di parole, di dejà vu, di viaggi in Brasile, io ero appena tornata, di quando a San Paolo durante il concerto qualcuno gli gridò “Sei barbaro!” e lui si amareggiò pensandosi colpevole di chissà quale scorrettezza, ignorando fosse invece un gran complimento, sinonimo di ottimo, irraggiungibile, esagerato. Fantini era spettatore di quella libera cavalcata tra affinità elettive, stupito di quell’inatteso sodalizio. All’uscita dal locale una nebbia spessa si era impossessata della notte, aveva cancellato la città, la strada, i portici, tutti gli altri esseri viventi, anche Fantini, all’infuori di noi. Sospesi in un lattiginoso possibile, nemmeno una musica turca, soli, vicini. Troppo! Qui, tutto il meglio è già a qui, non ci sono parole, chissà cosa possiamo dirci in fondo a questa luce, eh sì, che non è luce è solo un attimo di gloria. Un lampo di felicità. Avviciniamo le guance. Dal fondo della sua voce calda viene fuori un saluto. “Allora ciao, Patrizia”. Si gira, scompare. Con l’emozione di essere stata in una delle sue canzoni, rimango a lungo sospesa nella nebbia prima di tornare alla realtà. Certi gatti o certi uomini, svaniti in una nebbia o in una tappezzeria, addio addio, mai più ritorneranno si sa, col tempo e il vento tutto vola via. Invece, dopo una settimana, mi telefona, passa da Torino, viene a trovarmi. Porta un libro in regalo e restiamo a parlare di musica brasiliana per un bel pezzo. Gli traduco Caetano e lui gli preferisce sempre Chico, poi andiamo a cena fuori, si usa ancora. Ma non c’era la nebbia, fu una cena. Niente a che vedere con quella magia dopo concerto che mi restò dentro per anni, come un compagno segreto, quando inforcavo la bicicletta e percorrevo chilometri solo per fare la discesa dei Murazzi, per respirare la nebbia del fiume, per passare davanti a quella drogheria di una volta in Piazza Statuto, che teneva la porta aperta davanti alla primavera dudaddadududu.

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