Andare verso altro da sé, mettersi alla prova, sconfinare, saltare steccati e barriere, conoscersi. Il viaggio è spesso un rito di passaggio. Se lo è, si torna cambiati. Al ritorno dal mio primo viaggio in Brasile, neppure la mia cara cugina Maria mi riconobbe e quando entrai nel suo negozio mi chiese “desidera?” Mi era cambiato perfino il colore degli occhi. Tornavo da quel paese come amica di Jorge Amado e Caetano Veloso, parlando portoghese e con al collo la collana rossa delle figlie di Oià, la dea del vento. Da lì tutto cambiò, anche il mio percorso di studi e da storia del cinema passai ad antropologia con una tesi sulle sacerdotesse del candomblé. Scoprivo il mondo degli encantados, spiriti delle forze della natura, e quello degli sciamani nativi, che raggiunsi a bordo della canoa nella foresta pluviale.   

Quest’anno il tema del mio corso di antropologia all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria è stato il viaggio: “L’esperienza dell’altrove: viaggi, sconfinamenti, spostamenti e migrazioni”. Un tema di grande interesse per le mie studentesse e i miei studenti, che non conoscevano l’antropologia. È vero le ragazze vengono qui a Reggio Calabria a studiare, la maggioranza da altri paesi e dalla Sicilia, si spostano, viaggiano. Ma molte di loro affrontano difficoltà simili a quelle delle colleghe viaggiatrici di fine Ottocento. Famiglie restrittive, paura a muoversi da sole, steccati sociali, in qualche caso, attacchi di panico in stazione. Un tema scottante tra paura e disperato bisogno di volare. Un’occasione d’oro per me e per loro. Ora gli esami nei quali tiar fuori chi sono, come hanno fatto a lezione, il viaggio viene declinato, antropologizzato, visto nella sua funzione salvifica, come minaccia, speranza, fuga, altro da noi. Chi si occupa del sogno come viaggio in un’altra dimensione, chi di viaggi che potremmo definire “di sconfinamento”, dal tarantismo, a Carlos Castaneda, dal candomblé di Bahia al volo sciamanico amazzonico, chi del viaggio- pellegrinaggio, come quello della Madonna di Polsi o quello di Santiago de Compostela, chi del viaggio temporale che si effettua partecipando a riti apotropaici locali, divinazioni di San Giovanni o sdocchiamenti, chi del viaggio appena fatto con lo zio nei paesi arabi da comparare con le esperienze delle grandi viaggiatrici del deserto da Isabelle Ebrhardt a Gertrude Bell, chi di una viaggiatrice del pensiero come Meri Lao, chi, sul punto di implodere, di discriminazioni di genere e di viaggiatrici come fossero mine vaganti, tutti del viaggio verso se stessi. Una meraviglia!

E poi c’è il viaggio che faccio io, da Soverato a Reggio con le ultime littorine, dove qualche forestiero cerca invano la presa per caricare il telefono mentre i locali ridono sotto i baffi, con il mare e il “non finito calabrese” da una parte, rovine in costruzione quasi ingoiate da agavi e fichi d’india, e la montagna, calanchi, pinnacoli dall’altra, fino all’apparizione dell’Etna che svetta prodigioso e sempre a sorpresa dall’altrove marino. Come tutta questa giovane umanità affiorante, che a bordo di treni, navi, corriere, autobus, si muove per arrivare all’antropologia.