Che occasione! Aver capito molto presto che fotografare è una forma di educazione sentimentale, una chiave per interpretare il mondo, un personale modo di raccontare la realtà. Per anni è stato anche il mio mestiere. La macchina fotografica: il ferro del mestiere. Di metallo, proprio, con un certo peso, appunto, sebbene maneggevole come una colt. Quanti colpi? 12, 24 o 36, fotogrammi, contenuti in rullini da ricaricare al volo con piacere tattile, camminando, correndo, inseguendo l’evento, quel volto, la luce giusta, obliqua, calda, di breve durata. Guai a restare senza colpi, a rimpiangere lo scatto che rimaneva impresso nella mente, album delle foto mancate. Il risultato solo alla fine del lavoro, a volte dopo un mese di viaggio, col dubbio atroce di un guasto all’esposimetro. Nell’apposita borsa di tela ci stavano due o tre corpi macchina e quattro obiettivi, con il teleobiettivo si arrivava anche a cinque chili, nelle tasche laterali i trenta rulli d’ordinanza che dovevano bastare e davano al clic un valore patrimoniale, disciplinando la scelta dell’inquadratura, l‘equilibrio dell’immagine la luce. Così era il lavoro del fotoreporter negli anni ‘80 e ‘90, analogico. Un po’ esploratore, un po’ rabdomante, ti spingeva nei luoghi più remoti, pericolosi e impervi a cercare verità e bellezza. E ti ci mandavano pure.
In quegli anni avventurosi lavorai costantemente per una ventina di riviste, dai settimanali femminili ai mensili di viaggio, compreso l’incarico nel quale mi distinsi come inviata di Snoopy tra i pinguini della Patagonia. Ogni rivista vantava una sua precisa filosofia editoriale e regole inderogabili, solo kodachrome 25 asa, ad esempio. Nuova Cucina, con Ugo Tognazzi al timone, raccontava la cultura dell’alimentazione e pubblicò con entusiasmo il mio lavoro sulle offerte alle divinità afro-brasiliane. Corto Maltese comprava i miei itinerari più estremi e un giorno in redazioni ebbi l’augusta visione di Hugo Pratt seduto alla scrivania, col quale potei finalmente sciogliere i miei dubbi su Bocca Dorata e su Cush il dancalo. Atlante mise in copertina la bambina della girandola fotografata a Bahia, la cui sfolgorante bellezza meticcia affacciata a tutte le edicole d’Italia fece vacillare le certezze dei simpatizzanti della Lega Nord che nasceva in quegli anni. Epoca comprò la Regina dell’immondizia e la sua storia di Venere nella discarica, come fece anche l’Illustrazione Italiana, mentre Infinito dava spazio alle mie interviste con ritratto a Paolo Conte, colto in piena nebbia torinese, e al Renzo Arbore di Quelli della notte che fotografai nella luce d’oro dei murazzi del Tevere. Il direttore di Tuttoturismo cedeva invece al fascino delle mie destinazioni improbabili tra i cercatori di smeraldi e le favelas-palafitte, mentre la indimenticabile signora Arduino mi telefonava una volta al mese con proposte sempre allettanti: “Giancotti, mi va alle Galapagos?” Che tempi! La mission che tutte le testate mi affidavano consisteva nel catturare in breve tempo l’ineffabile spirito dei luoghi, per poi portarlo a casa e raccontarlo efficacemente. Partivo sempre sola e quando il tempo concessomi dalle riviste cominciò a starmi stretto, tagliai anche quell’ultima gomena per navigare libera, la storia da raccontare divenne la mia ricerca di antropologia visiva e il viaggio la vita.