Andare verso altro da sé, mettersi alla prova, sconfinare, saltare steccati e barriere, conoscersi. Il viaggio è spesso un rito di passaggio. Se lo è, si torna cambiati. Al ritorno dal mio primo viaggio in Brasile, mi era cambiato perfino il colore degli occhi. Avevo percorso migliaia di chilometri, spingendo autobus nel fango o navigando nella foresta pluviale e tornavo da quel paese parlando portoghese e con al collo la collana rossa delle figlie di Oià, la dea del vento. Cambiai strada e percorso di studi per passare ad antropologia. Scoprivo il mondo degli encantados, degli orixás, spiriti delle forze della natura, e quello degli sciamani nativi, in Mato Grosso, Amazzonia, Roraima, Minas Geraes. Con il Brasile iniziai a lavorare come fotoreporter nel corso di una permanenza che durò circa dieci anni per poi viaggiare poi in altri paesi, tra i quali Patagonia e Tierra del Fuego, Kerala, Benin, Giamaica, sempre seguendo storie di interesse antropologico da pubblicare. Il viaggio è un’attitudine al cambiamento, a vedere con occhi diversi, come quando da Torino si andava d’Estate verso Sud, nel piccolo paese della Calabria dove naque mio padre e dove inizai ad usare la macchina fotografica per catturare un mondo che intuivo sul punto di scomparsa. Una necessità che è bello sperimentare anche da fermi, viaggi interioni, sogni, sconfinamenti stanziali. 

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